Le Foibe
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Le Foibe

Di Gianni Toscani

Dopo oltre cinquant’anni, finalmente il 10 febbraio del 2004 si è ritenuto opportuno riconoscere ufficialmente gli eccidi delle foibe che fino ad allora era inconcepibile parlarne essendo un tema politicamente non veritiero in quanto gli artefici di queste stragi erano da addebitare ai partigiani: i cosìdetti “titini” e le foibe solo delle menzogne.

La storia è una sola, come una sola è la verità che, prima o poi viene alla luce e come sempre si cerca di approfittarne per parlarne nei momenti in cui fatti gravi travagliano grande parte del mondo.

Dai lontani anni 50′ del secolo scorso, sarebbe stato più che doveroso “onorare” queste povere vittime come attualmente avviene oggi e la storia delle foibe averla portata a conoscenza dell’opinione pubblica senza nascondere nulla.

In questo scritto voglio raccontare come sono venuto in possesso della testimonianza di un altarese sopravvissuto alle stragi delle foibe il quale, ancora dopo tutto questo tempo, al solo parlarne gli si riempirono gli occhi di lacrime.

Testimonianza di un sopravvissuto

Quando facevo parte dell’amministrazione comunale di Altare, ebbi occasione per motivi strettamente burocratici riguardanti certi lavori da eseguire in alcune vie del paese, di intrattenermi con il signore che avrebbe dovuto eseguire l’appalto e, dopo aver espletato tutte le formalità, mi fece una domanda riguardo alle mie ricerche sulla seconda guerra mondiale. Più che ricerche risposi: “ Io sono interessato alle testimonianze di chi ha vissuto quel periodo in prima persona, in quanto la storia è già scritta dai generali e storici, quindi a me interessano le vicende di chi ha combattuto o è stato nei campi di prigionia.

Mi ascoltò con attenzione e, dopo una pausa alquanto lunga come se dentro di lui si fosse scatenato un qualcosa di tormentoso mi disse: “Ho anche io qualcosa di interessante da raccontare, un’esperienza che non ho mai detto a nessuno”, un’altra pausa che io mi guardai bene dall’interrompere, dopo qualche silenzio travagliato, ci mettemmo d’accordo per incontrarci un pomeriggio a casa sua per parlarne.

Il giorno dell’appuntamento mi si è presentata una certa curiosità che mi divorava non vedendo l’ora di ascoltarlo. Senza preamboli, incominciò subito a raccontare senza mai interrompersi se non per schiarire la gola, come se un groppo gliela serrasse e, alla fine, visibilmente commosso mi disse cosa ne pensassi. Il primo impulso fu quello di dire che se ne poteva fare un libro, poi, optai per un articolo (che non feci), a questo punto lui fu categorico dicendomi: “Non voglio che sia citato il mio nome perchè è un ricordo troppo brutto”.

Sono trascorsi degli anni da quando il protagonista mi confidò questa triste esperienza facendomi promettere che se l’avessi pubblicato non avrei citato il suo nome. Ora che questo signore non è più tra noi e rileggendo la sua testimonianza e avendo deciso di renderla pubblica rispettando la sua volontà.

Dato l’argomento di quanto esporrò, forse qualche d’uno potrà avanzare dei dubbi sulla veridicità del fatto e che mi sia inventato tutto oppure, che faccio cattiva propaganda, voglio solo dire: che è la pura verità e la verità che fa la storia dovrebbe sempre essere detta nel verso giusto sia da una parte che dall’altra.

Ecco quanto mi raccontò:

Facevo parte della34^ legione della G.N.R., il giorno che cessarono le ostilità mi trovavo sui confini dell’Istria e lì, fui fatto prigioniero dai partigiani di Tito. Mi rinchiusero, dopo essere stato trasferito con un camion in un grande capannone con altri militari della R.S.I. e dei tedeschi, non saprei dire con esattezza quanti eravamo, certamente non meno di un migliaio.

Per riposare, si fa per dire, ci coricavamo sulla nuda terra resa umida dall’acqua piovana che filtrava un poco dappertutto. I più fortunati avevano una coperta o un cappotto, anche se serviva ben poco tanto era l’umidità, una volta bagnati stentavano ad asciugarci, comunque, era sempre meglio di niente.

Una volta al giorno ci davano un poco di brodaglia e una pagnotta da dividere in dieci, per il resto della giornata sempre chiusi. Trascorso qualche giorno, una mattina incominciarono a farci uscire nell’ampio piazzale e, allineati in lunghe file, un graduato scortato da due uomini armati di mitra , passava in mezzo alle file iniziando la conta e, ogni quel tanto, faceva uscire un uomo fino a che terminata la selezione e formato un gruppo di prigionieri, venivano portati via con un camion, mentre tutti gli altri venivano rinchiusi nei capannoni la mattina successiva.

E così via, ogni mattina, la stessa storia fino a quando incominciò a farsi strada di quello che ormai dubitavano. I poveri disgraziati estratti dalla conta, venivano portati nei pressi di una foiba e legati due a due con del filo spinato schiena contro schiena, quindi ne ammazzavano uno con un colpo alla nuca per poi precipitarli nell’orrido. (Con certezza tutto questo lo appresi molto tempo dopo).

Nella decimazione poteva capitare a chiunque di noi, ricordo una mattina che si stavano avvicinando a me e non era ancora toccato a nessuno della fila a cui appartenevo, ormai ero rassegnato, sarebbe stato il mio ultimo turno?

Avevo chiuso gli occhi aspettando che mi toccassero e l’urlo, in un italiano gutturale che mi giungeva: “Fuori”. Con rassegnazione mi sarei dovuto accodare al gruppo scelto, quando poi mi accorsi che il soldato si era rivolto all’uomo prima di me, anche oggi l’avevo scampata. Con il passare del tempo il gruppo si stava sfoltendo sempre di più, da come si prospettava la situazione sembrava che ci avrebbero fatti fuori tutti.

Quella spasmodica attesa nell’attendere la mattina successiva ci logorava con il passare del tempo, ormai ogni tipo di speranza era perduta.

Dopo giorni di questo calvario che non sono in grado di dire per quanto tempo si protrasse, per quanti giorni sopportai questo giudizio se così si può definire. Ricordo solo l’ultima tortura, il giorno in cui fui estratto dalla conta, le gambe mi tremavano, inebetito mi aggregai al gruppo dei prescelti restando in attesa come se attorno a me non esistesse più nulla, a quel punto non mi importava più della mia sorte, speravo solo di non soffrire e che tutto si svolgesse in fretta per non pensare più a questa tortura, a questa spasmodica attesa giornaliera che tanto per noi non c’era più avvenire.

Fatti rientrare gli altri, invece di farci salire sul camion che era fermo poco più lontano ci condussero in un altro capannone e lì giunti, ci ordinarono di riassettarci, farci la barba, la doccia e indossare vestiti puliti che erano accatastati in un mucchio alla rinfusa. Subito pensai, è un altro sistema di tortura dandoci l’illusione che ci avrebbero liberati.

Al di fuori, stazionavano sempre le sentinelle armate che di tanto in tanto ci sollecitavano a sbrigarci. All’interno del capannone trovammo tutto l’occorrente, dai lavabi alle docce, rosai per sbarbarci. Ripulito, rasato alla meglio, scelsi da un mucchio di divise senza alcun emblema o mostrine quanto mi occorreva. Ognuno scelse i capi del vestiario che più li confacevano e poi uscirono incolonnati, ci portarono in fondo al piazzale e, solo allora, mi resi conto che eravamo all’interno di quella che un tempo era stata una fabbrica.

Giunti nei pressi del cancello d’ingresso del complesso industriale, diedero l’alt e ci fecero stare sull’attenti fino a quando arrivò un gruppo di persone con l’aria di essere dei militari, ma non avevano mostrine, né gradi, solo una fascia bianca con una croce rossa. Dissero solo: “Buongiorno”, che nessuno di noi rispose essendo troppo scioccati, frastornati, non riuscendo ancora a capacitarci di quello che stava accadendo.

Fuori ad attenderci c’era un camion con una grande croce rossa, stipati come sardine partì per fermarsi dopo parecchie ore nelle vicinanze di un ospedale dove fummo sottoposti a disinfestazione. Solo allora ci informarono che su interessamento della Croce Rossa internazionale, i titini ci avevano rilasciati in quanto le autorità jugoslave volevano dimostrare la loro collaborazione e che trattavano i prigionieri con umanità.

Non so che fine abbiano fatto quelli che erano prigionieri con me, se furono liberati o se continuò la mattanza mattutina, so solo, che devo ringraziare la fortuna perchè quel giorno sarebbe toccato a me”.

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